Tracy Chevalier per me è come il comfort-food. La sua scrittura sa di buono e mi fa stare bene, so che mi piacerà sempre e non mi deluderà mai. L’ho scoperta, un po’ come tutti, con La ragazza con l’orecchino di perla, romanzo che l’ha resa tanto celebre, e non l’ho mai più lasciata, rimanendo in paziente attesa tra un lavoro e l’altro. Succede però che alcuni libri rimangano lì, fermi sugli scaffali, acquistati con l’urgenza di essere letti al più presto, poi ne arrivano altri e altri ancora, la lista si allunga e qualcuno rimane indietro, non perdendo per questo di importanza. Credo, poi, che, tra i tanti poteri magici in loro possesso, ce ne sia uno in particolare: quello di rimanere in silenzio tra i tuoi scaffali, quasi mimetizzati tra la folla, così che tu magari per anni non li vedi più e non ricordi nemmeno di averli, finché un giorno, all’improvviso, si fanno notare, ti chiamano, ti strizzano l’occhio, come a dirti “Ehi, tu! Adesso tocca a me!”.
È il potere che hanno i libri di chiamarti al momento giusto.
Questo è successo con I frutti del vento. Se ne stava lì da un paio d’anni, in silenzio, nascosto tra i suoi fratelli e, due mattine fa, mettendo a posto qualcosa, me lo sono ritrovato davanti. Il gesto di toglierlo dallo scaffale, accarezzare la copertina, che è bellissima, e decidere di cominciare così la mia giornata è stato naturale.
Palude Nera, Ohio. La famiglia Goodenough (fermatevi a riflettere sul significato di questo cognome, è meraviglioso!), arrivata dal Connecticut dopo aver lasciato la fattoria di famiglia, invitata dal patriarca a cercare la propria strada altrove, raggiunge l’Ovest e si installa in questa landa desolata, dove l’acqua puzza di marcio e il fango è talmente perenne che si attacca alla pelle e ai vestiti e si fa fatica a mandarlo via, e la malaria, causata dalle prolifiche zanzare, ogni estate si porta via qualcuno, tanto che alla fine ci fai l’abitudine e non piangi nemmeno più. Su dieci figli fatti, a James e Sadie Goodenough ne rimanevano solo cinque.
Per poter essere proprietari dell’appezzamento di terreno occupato, la legge dell’Ohio prevede che il colono debba coltivare un frutteto di almeno cinquanta alberi. James Goodenough, che ama gli alberi più di qualunque altra forma di vita, accetta la sfida e tenta in tutti i modi di far crescere quanti più alberi di mele possibile, quelle dolci, buone da mangiare, e quelle più asprigne, ottime per il sidro, che la moglie Sadie preferisce di gran lunga.
Non era un sentimentale, lui, non piangeva neppure quando gli moriva un figlio: scavava la fossa e lo seppelliva. Però si faceva cupo e silenzioso se doveva buttare giù un albero, pensando a tutto il tempo in cui aveva gettato la sua ombra in quell’angolo di foresta. Non gli capitava con gli animali che cacciava, erano solo cibo, creature che passavano attraverso il mondo e se ne andavano in fretta. Come le persone. Ma gli alberi sembravano fatti per durare.
James e Sadie, forse logorati da quella vita precaria, dall’estenuante impegno del marito nella cura dei suoi alberi, invece che della famiglia, dalla propensione di Sadie ad attaccarsi all’acquavite, ad essere una madre noncurante dei figli e indispettita per la mancanza di attenzioni nei suoi confronti, innescano una irreparabile guerra dell’odio, sotto gli occhi impotenti e silenziosi dei ragazzi, che, per poter andare avanti, non possono fare altro che prendersi cura di se stessi, della casa e della piantagione. Finché un giorno, l’animo nero di Sadie raggiunge il punto di non ritorno e cambia irrimediabilmente il destino di tutti.
Robert, il figlio prediletto, a soli nove anni, lascia la casa e i fratelli, abbandona quel mondo ostile e parte alla ricerca di una nuova vita. Percorre l’America in lungo e in largo, fermandosi ovunque, facendo ogni tipo di lavoro e imbattendosi in luoghi e persone importanti. Per molto tempo, ogni primo giorno dell’anno, scrive una lettera ai fratelli, sperando di ricevere risposta e di avere buone notizie, poi, dopo l’ennesimo silenzio, decide di smetterla, di chiudere per sempre con il suo passato e non pensarci più. Un giorno però, diciotto anni dopo, si ritrova all’improvviso tra le braccia della sorella Martha, la debole e dolce Martha per la quale nutre un forte senso di colpa. E, ancora una volta, il destino di Robert cambierà nel giro di pochi attimi.
Un romanzo doloroso eppure pieno di speranza, aspro e dolce, come quelle maledette mele che hanno innescato la sanguinosa guerra dei Goodenough, le mele per il sidro e quelle buone da mangiare.
Da questo libro ho imparato un sacco di cose che non sapevo sugli alberi di mele e sui loro frutti e credo che adesso andrò a fare una torta. Ho imparato un sacco di cose anche sugli alberi in generale e, soprattutto, sulle sequoie, che pare possano raggiungere dimensioni inimmaginabili e quasi quasi mi viene voglia di partire per la California. Ho imparato che il mondo è una valle di lacrime, che la vita è aspra e dura, ma che il cuore sa riconoscere il posto giusto per risvegliarsi.
I FRUTTI DEL VENTO – TRACY CHEVALIER
NERI POZZA
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