Mi capita spesso di pensare sono talmente stanca che dormirei tre giorni di fila.
La stanchezza fisica, quella causata da una fatica materiale, quella che puoi misurare in relazione a ciò che hai fatto, è una stanchezza che, per quanto mi riguarda, sparisce con una buona notte di sonno.
Il nostro corpo è una macchina intelligente, programmata per dare risultati ben precisi in seguito a condizioni specifiche.
Vado a letto distrutta, dormo otto ore di fila, mi alzo la mattina successiva con la forza di un leone. Potrei spostare i muri.
La stanchezza mentale, invece, quella che ti colpisce quando meno te l’aspetti, perché hai continuato a riempire il cervello di cose, tanto ci sta di tutto, senza renderti conto che forse stai esagerando, è una rottura degli ingranaggi che richiede un processo riparatore più lungo.
Non basta una notte, non è sufficiente un breve riposo, è necessario staccare la spina. Lo diciamo spesso, no?
Sì, lo diciamo spesso, ma lo facciamo poco.
Non possiamo permettercelo, la vita corre e non ci aspetta, malgrado i nostri casini, malgrado noi, ad un certo punto, abbiamo bisogno di fermarci.
La protagonista di questo romanzo, una protagonista senza nome, si rifugia in un anno di sonno convinta che solo così potrà arrivare a non provare più alcun sentimento e a liberarsi dal vuoto che la affligge.
È una ragazza privilegiata, è giovane, bella, magra, elementi determinanti in una città come New York, economicamente agevolata grazie alla sua famiglia, vive in un appartamento di proprietà nell’Upper East Side di Manhattan, laureata da poco alla Columbia, lavora in una galleria d’arte.
Ma i privilegi con cui è cresciuta e vive non riescono a proteggerla dalla vita.
I genitori, persi prematuramente a distanza di poco tempo l’uno dall’altro, mentre lei frequentava il college, sono sempre stati assenti, troppo impegnato nel lavoro il padre, troppo presa dall’alcool e dalle sue frustrazioni la madre.
La loro morte, che la proietta in un buco nero fatto di un lutto che fa fatica ad elaborare, considerati i rapporti famigliari inesistenti, insieme alla insana relazione con un fidanzato tanto inutile quanto egocentrico, la portano ad un dolore che non riesce, non solo a sostenere, ma nemmeno a capire, concepire, incasellare in qualche modo in una definizione che potrebbe rappresentare già un inizio di guarigione.
Decide così di lasciare tutto, di chiudersi in casa e di mettere in atto il suo piano di ibernazione narcotica, che dovrà durare un anno e che dovrà portarla a non provare più alcun sentimento e, forse, a guarire.
Non che avessi in mente di suicidarmi. Stavo facendo proprio il contrario. La mia ibernazione serviva a preservarmi. Pensavo che mi avrebbe salvato la vita.
Complice una psichiatra che non raccomanderei nemmeno al mio peggior nemico.
Al suo fianco, nel tentativo di tenerla a terra e di farla uscire da questo stato, la sua amica Reva, l’unico legame che le è rimasto.
Un legame che, però, non ha un equilibrio, forse sottovalutato, spesso osteggiato, ma pur sempre esistente.
Il mio anno di riposo e oblio, di Ottessa Moshfegh, è un romanzo che indubbiamente spinge a farsi molte domande.
Le riflessioni che ne derivano sono sicuramente quelle sul dolore, sui rapporti umani, su quello che i rapporti ci danno o ci tolgono.
Mi sono chiesta se sia corretto decidere di prendersi una pausa dal mondo e dalla vita per superare un dolore, evitandolo anziché affrontandolo.
Mi sono chiesta se, indipendentemente dal modo in cui uno decida di farlo, sia effettivamente possibile guarire da un dolore, se sia possibile raggiungere, non l’assenza dei sentimenti, ma la cancellazione, l’oblio, di quelli che ci fanno stare male.
Ovviamente una risposta non ce l’ho, sarebbe troppo bello e facile, sarebbe la soluzione.
Però credo che, quando ci capita una cosa grande, come potrebbe essere un lutto, o qualsiasi altro avvenimento che meriterebbe del tempo per essere affrontato ed elaborato, dovremmo poter concederci il lusso di fermarci, di mettere in pausa tutto quanto per poterci concentrare solo sulla nostra cura.
Senza rifugiarsi nell’eccesso farmacologico a cui ricorre la protagonista, io credo fermamente nel potere curativo del sonno, credo nell’esigenza di staccare la spina di cui parliamo tanto e che, invece, pratichiamo poco.
Il mio anno di riposo e oblio, coinvolgente e, per certi aspetti, destabilizzante, non ci regala la soluzione, ma ci regala un’esperienza, un punto di vista, che smuove le corde dell’anima.
Lo consiglio di cuore. Difficilmente si farà dimenticare.
IL MIO ANNO DI RIPOSO E OBLIO – OTTESSA MOSHFEGH
FELTRINELLI
PREZZO DI COPERTINA: € 17,00