Dalla sua stanza di un ospedale di New York, alla cui finestra si staglia l’elegante profilo del Chrysler che, con le sue luci notturne, le fa compagnia, Lucy Barton, ricoverata da diverse settimane, trascorre cinque giorni con la madre.
La trova lì, ai piedi del letto, una mattina.
Una sorpresa inaspettata, dopo tanti anni.
Cinque giorni durante i quali, tra frasi spezzate a metà, lunghi silenzi e parole che possono tagliare più a fondo di una lama, Lucy ripercorre una vita dalla quale ha ormai da tempo preso le distanze.
La povertà di una famiglia che era un’anomalia, i primi anni a vivere dentro un garage, tra il freddo e le mancanze di ogni genere, il trasferimento nella casa dello zio, ancora fredda, buia, sporca, quattro stracci per vestiti, poca igiene, il giudizio della gente, pane e melassa come unico cibo, un padre irascibile e pieno di fantasmi.
Le stranezze che tornano a galla dopo molti anni, quella madre che lei ama da impazzire ma dalla quale non ha mai ricevuto un bacio o sentito un “ti voglio bene”.
La scuola, unico posto caldo in cui sentirsi al sicuro.
L’amore per i libri, la scrittura, il college.
New York, i tempi che cambiano, le persone importanti, il riscatto, un matrimonio, le figlie, il successo.
La solitudine.
Cinque giorni di amore e rabbia, durante i quali tornano alla luce ricordi dolorosi ai quali la madre non dà spago, evitandoli come se non fossero mai accaduti.
Cinque giorni, al termine dei quali, nel momento in cui la madre se ne va, tornando in quel piccolo paesino al quale Lucy non vuole più guardare, non rimane altro che un vuoto grande quanto tutto ciò che le è mancato quando era una bambina.
Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, con una scrittura ipnotica, che cattura ad ogni parola, lascia un profondo senso di malinconia per ciò che è stato e per ciò che non è stato. Una storia unica.
Era un’anomalia, la nostra famiglia, perfino nel minuscolo paese di Amgash, nell’Illinois, dove di case mezzo diroccate, da ristrutturare, senza giardino né persiane alle finestre, senza un po’ di bellezza su cui posare gli occhi, ce n’erano altre.
Io mi prendo e mi scaravento nella vita, cieca come un pipistrello, ma in volo! Questa è la spietatezza, penso.
Ciascuno di voi ha soltanto una storia, – aveva detto. – Scrivete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola.
MI CHIAMO LUCY BARTON – ELIZABETH STROUT
EINAUDI
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